Strada in salita per l’export del melone italiano

L’Italia è al nono posto nella classifica degli esportatori mondiali di melone con la Spagna top performer per volumi, seguita da Stati Uniti, Brasile, Messico e Paesi Bassi. Davanti all’Italia anche Francia, Cina e Marocco.

I dati. Lo rivela l’ultima analisi Ismea che mette in luce la scarsa propensione all’export dell’intero comparto dal momento che viene esportato soltanto il 5% della produzione totale, una quantità che si aggira intorno alle 30mila tonnellate annue (su poco meno di 600mila) che producono un valore di circa 21 milioni di euro.

Alla base di questo gap c’è un comparto eccessivamente frammentato e un numero di produttori non organizzato che coltiva meloni per “riempimento” (ossia quando ha spazio in campo) e che rappresenta la metà delle aziende presenti sul mercato.

Il comparto. «La struttura atomizzata della filiera – spiega Ettore Cagna, presidente dell’organizzazione interprofessionale del melone nonché presidente dell’azienda agricola reggiana Don Camillo – rende di fatto impossibile qualsiasi tipo di programmazione. Oltre la metà dei produttori coltivano quando hanno spazio e raccolgono meloni in 40 giorni a differenza dei 7-8 mesi di campagna delle aziende più strutturate. Con queste premesse è molto difficile organizzarsi e ogni volta che si inaugura la raccolta i buoni propositi saltano e finisce sempre che ognuno pensa per sé. Così la filiera non ha nessuna possibilità di competere con i grandi produttori come gli spagnoli o i francesi. All’ultima riunione dell’interprofessione, che ho convocato alla vigilia della campagna, sembrava che si fosse trovata una certa convergenza sulla necessità di partire coordinati e poi invece, appena si sono aperti i giochi è finita che ognuno ha pensato al suo orticello senza una visione di insieme né men che meno di lungo respiro».

I competitor. Per capire il livello di atomizzazione della filiera del melone italiano basti pensare che i primi 10 produttori in Italia non arrivano a rappresentare neanche il 20% della produzione nazionale per contro le prime tre aziende francesi, rappresentano l’80% del totale.

«In questo contesto – chiarisce Bruno Francescon, presidente dell’omonima organizzazione di produttori che produce il 40% dei volumi italiani di melone destinati all’estero – è chiaro che l’export diventa quasi un’utopia. C’è un problema innanzitutto di varietà richieste oltre confine che sono varietà di calibro medio-piccolo e piccolo che soltanto le aziende più strutturate possono produrre. Per i coltivatori non organizzati, inoltre, risulta precluso anche il canale della Gdo straniera perché le logiche di mercato escludono le piccole produzioni non organizzate. È un peccato perché l’estero rappresenta grandissimi margini di crescita ed è un opportunità non sfruttata soprattutto per la varietà cantalupo che in Italia cresce con proprietà uniche e inimitabili dai nostri competitor internazionali».

I mercati. Tra i mercati di sbocco dove oggi è possibile trovare i meloni italiani c’è l’Austria, la Svizzera, la Germania, il Regno Unito, la Scandinavia, l’Ungheria, la Romania, la Croazia e persino il Senegal e la Costarica.

Sul fronte interno, invece, Ismea riferisce che, in un contesto di calo generalizzato degli acquisti di frutta da parte delle famiglie italiane nel quinquennio 2010-2014, con un tasso di variazione negativo dell’1,2% nella media di ciascun anno, i meloni hanno mostrato una maggiore tenuta cedendo, annualmente, solo lo 0,5%.

Ma anche qui, precisa Cagna «stiamo parlando di un calo di consumi di melone pro-capite che dal 2008 è sceso di circa 3 punti percentuali assestandosi oggi a poco più di 8 chili l’anno. Con questi dati quello che serve ai produttori italiani oggi è di lavorare sulla qualità e sulla differenziazione e non sulla quantità».

I canali. Sul mercato interno, infine, le vendite fanno riferimento per l’80% al canale domestico, rappresentato dalla distribuzione moderna (iper e supermercati, discount e libero servizio) e dal traditional trade (piccolo dettaglio tradizionale). Il restante 20% è invece riconducile al canale Horeca, principalmente costituito da bar, ristorazione e food service.

Intanto prosegue la campagna iniziata da poco e a rallentatore a causa delle basse temperature del mese di giugno. Ma il cambio di temperature atteso per i prossimi 15 giorni lascia ben sperare gli operatori. «Quest’anno abbiamo avuto – continua Francescon – quantità non altissime sicché nei prossimi giorni, con il miglioramento atteso delle condizioni climatiche, ci attendiamo un aumento dei prezzi e dei volumi venduti. Sono fiducioso per questa campagna».

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