Quest’inverno Halaesa si appresta al suo primo raccolto di avocado made in Sicilia. Un prodotto bio, di filiera, da terreni di proprietà. L’obiettivo al 2029 è audace: raggiungere i 500 ettari coltivati, coprendo così il 10% del consumo italiano del frutto superstar delle vendite.
I dati indicano una crescita inarrestabile: secondo l’ultima edizione dell’Osservatorio Immagino di GS1 Italy nel 2024 l’avocado è stato il prodotto più venduto nella gdo nella categoria “ingredienti benefici”, con un +21,9% su base annua, per un consumo italiano complessivo che ammonta oggi a 45mila tonnellate. A livello europeo l’Organizzazione mondiale dell’avocado ha registrato una crescita della domanda del +13,2% nel 2024, con l’Italia tra i Paesi più dinamici: +8% rispetto al 2023 e il 31% delle famiglie italiane che oggi acquista regolarmente avocado.
Con il ceo Francesco Mastrandrea, founder di Halaesa, facciamo una riflessione sulle potenzialità del tropicale made in Italy.
Il tropicale italiano sarà sempre una nicchia?

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una trasformazione strutturale del settore tropicale in Italia. Il cambiamento climatico non rappresenta soltanto una sfida, ma una vera leva di adattamento agricolo: alcune aree del Sud Italia oggi offrono condizioni pedoclimatiche ideali per specie come avocado, mango e passion fruit, un tempo impensabili a queste latitudini. Si stima che in tutta Italia, le superfici potenzialmente adeguate non superino i 10mila ettari (meno dello 0,001% di tutta la superficie agricola italiana).
Nonostante questo, parlare di “nicchia” non è più del tutto corretto. Ci troviamo davanti a un mercato in fase di consolidamento, dove la domanda di tropicale di origine italiana cresce costantemente, trainata da tre fattori: la ricerca di freschezza e tracciabilità da parte del consumatore; la riduzione dell’impronta ambientale rispetto ai prodotti importati via nave o aereo; la possibilità per la gdo di raccontare una filiera mediterranea con valori di sostenibilità e prossimità. Resta però essenziale una distinzione tra qualità e volumi: l’Italia può essere competitiva solo su produzioni di alta gamma, con standard elevati e certificazioni (bio, residuo zero, o integrate).
Quali sono invece le criticità?

Le criticità principali riguardano i costi di impianto e di gestione idrica, che richiederanno investimenti in infrastrutture irrigue efficienti, bacini di raccolta e sistemi di monitoraggio intelligente, la disponibilità di materiale vivaistico certificato con portainnesti controllati e la necessità di una maggiore organizzazione di filiera per garantire volumi costanti e programmabili.
Queste sfide non sono ostacoli, ma leve di crescita, a patto che il comparto venga accompagnato da politiche di sostegno mirate e da una regia di filiera. Il tropicale non deve replicare gli errori del passato, ma costruire un nuovo modello di agricoltura mediterranea orientato alla sostenibilità economica e ambientale.
Quali sono le strategie in campo che dovrebbe adottare il settore?
L’Italia dispone oggi di circa 1500 ettari di avocado e mango, concentrati in Sicilia, ma le superfici in impianto sono in crescita costante. La direzione che sta prendendo il settore è quella della specializzazione e del consolidamento dell’impianto. Si stanno definendo poli produttivi provinciali capaci di integrare ricerca agronomica, sperimentazione varietale e modelli irrigui innovativi.
Un ruolo chiave lo gioca l’agricoltura rigenerativa, che rappresenta un’evoluzione naturale del biologico: un approccio che mira a migliorare la fertilità del suolo, la biodiversità e la capacità di trattenere acqua e carbonio. Applicare tecniche rigenerative agli impianti tropicali significa produrre in modo resiliente, riducendo l’impatto ambientale e migliorando nel tempo la stabilità produttiva degli ecosistemi agricoli.
Il futuro del tropicale made in Italy dipenderà dalla capacità di integrare innovazione agronomica e sostenibilità economica, puntando su tecnologie di monitoraggio climatico e idrico in tempo reale; pratiche rigenerative e cover crops per la tutela del suolo; diversificazione varietale per ampliare il calendario di raccolta; aggregazione di filiera per costruire una massa critica di prodotto programmabile.
A medio termine, la vera evoluzione non sarà tanto quantitativa, quanto qualitativa: la selezione delle varietà più adatte, la disponibilità di portainnesti resistenti e l’efficienza delle tecnologie di fertirrigazione determineranno la sostenibilità economica del tropicale made in Italy.
C’è inoltre una forte attenzione verso la diversificazione del rischio climatico, che spinge gli imprenditori a integrare colture tropicali e mediterranee nello stesso sistema agricolo.
Qual è il ruolo che può recitare la distribuzione?
Il consumatore oggi è molto più pronto rispetto a qualche anno fa: conosce l’avocado, ne comprende il valore nutrizionale e cerca prodotti che abbiano una storia e una provenienza certa.
Le campagne di comunicazione più efficaci non saranno più soltanto promozionali, ma educative: dovranno spiegare che un tropicale coltivato in Sicilia ha un minore impatto ambientale, una filiera tracciata e, spesso, un valore sociale legato alla rigenerazione di territori agricoli.
La distribuzione avrà un ruolo decisivo: serve una collaborazione strutturata tra produttori e retailer, capace di comunicare insieme origine, freschezza e sostenibilità.
Chi saprà unire dati di campo, trasparenza e storytelling territoriale potrà trasformare il tropicale made in Italy da fenomeno emergente a comparto stabile del sistema ortofrutticolo nazionale











