Export F&V, tutti i modelli di business

La spinta verso l’internazionalizzazione è uno dei passaggi obbligati che il sistema ortofrutticolo italiano deve fare per recuperare la costante e inesorabile perdita di terreno sul mercato globale.

Sorvolando su alcuni punti di partenza fondamentali ossia, misurarsi con le proprie risorse e conoscere le richieste del mercato che si vuole approcciare, si possono individuare alcuni modelli standard per avviare un business.

Nell’analisi di SGMarketing presentata questa mattina nel corso dell’incontro “L’internazionalizzazione dell’impresa ortofrutticola: risposte concrete alle esigenze emergenti” che ha inaugurato il ciclo di eventi di Fruit Innovation in programma a Fiera Milano dal 20 al 22 maggio, si evidenziano 5 modelli di business per le imprese che vogliono farsi un varco sui mercati esteri.

I retailer. «Il primo – ha chiarito Claudio Scalise, managing partner di SGMarketing – è basato sul rapporto diretto con i retailer ed è applicabile soprattutto al mercato europeo. È un modello che implica la presenza di grandi volumi di produzione per rispondere alle esigenze della distribuzione oltre che piani promozionali di supporto dal momento che qui hanno un grande ruolo gli elementi di attrattività nei confronti dei clienti».

I vantaggi di questo modello sono legati al contatto diretto con il cliente e all’assenza dei costi di intermediazione. Tuttavia in questo caso lo svantaggio è dato dal fatto che bisogna gestire direttamente tutta la parte della logistica. Cosa che rappresenta un aggravio significativo soprattutto finanziario.

L’intermediario”. Si può anche strutturare il proprio business all’estero inserendo nella catena di distribuzione un intermediario. Questo modello è molto usato dalle aziende che esportano frutta trasformata. Molto meno da quelle di frutta fresca.

L’intermediario è la figura del broker o dell’agente. In questo caso i volumi di produzione richiesti sono più ridotti e quindi meglio gestibili tuttavia il contraltare è un basso controllo del cliente. I vantaggi di questo modello sono i costi variabili dal momento che l’agente viene pagato a percentuale e solo se il business si realizza. Il lato negativo, anche in questo caso, è che i costi di logistica sono a carico dell’azienda che deve anche sostenere la gestione finanziaria del rapporto con il cliente.

Il distributore. Si può anche scegliere di rivolgersi ad un importatore-distributore, una figura strutturata in modo da gestire direttamente il mercato che, nei confronti dell’azienda fornitrice, determina sia volumi che l’ammontare degli investimenti promozionali che dovranno essere effettuati a supporto del piano di distribuzione.

Il rischio qui, è che ci si trova di fronte alla giungla della concorrenza fra distributori i quali, per competere verso i clienti finali spesso lavorano sulla leva del prezzo. In questo senso questo modello può determinare una riduzione della marginalità derivata dal calo dei prezzi che poi, attenzione, si riflette su tutta la filiera.

«Il vantaggio – ha chiarito Scalise – è che il distributore conosce bene il mercato locale e si assume in prima persona la distribuzione e la vendita del prodotto. Mentre il problema grosso si registra sulla marginalità e non è indifferente dal momento che nel settore ortofrutta i margini sono già molto bassi di default» Altro punto negativo di questo modello è lo scarso controllo da parte dell’azienda sul cliente finale.

La joint-venture. Un’altra alternativa praticabile è quella di realizzare una joint venture con un produttore locale oppure con un distributore oppure con un operatore locale ad integrazione del business. «Questa possibilità – ha precisato Scalise – è preferibile quando si ha un brand o un prodotto distintivo di modo che l’interazione tra aziende possa essere molto forte. Per l’ortofrutta va bene nella gestione delle filiere in cui si delocalizza una parte del processo produttivo come, ad esempio, la fase del confezionamento finale. Se gestita in loco è molto più mirata alle richieste dei mercati di riferimento che, se sono molto lontani, è difficile intercettare». I plus di questo modello sono proprio le expertise locali ai quali si aggiungono minori investimenti di start-up.

La filiale. Parlare di filiale ha senso quando c’è know-how distintivo che è tale di permettere all’azienda di andare su nuovi mercati con un proprio brand forte, come ad esempio quello di Zespri. In questo caso si può pensare di gestire il mercato con una propria azienda. Un modello di questo genere aumenta la marginalità e rende più veloce la crescita del brand o del business.

«Gli svantaggi – conclude Scalise – derivano dal fatto che questa soluzione richiede un’elevata massa critica che giustifichi questo tipo di attività oltre che alti costi di avvio».

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