Antonello Colonna propone i piatti in salsa blockchain

Antonello Colonna, chef-imprenditore dagli interessi poliedrici, già stellato con l’Antonello Colonna Open, a Roma, guida dal 2012 l’omonimo resort & spa di Labico, anch’esso una stella Michelin. Qui dispone di un orto di 60 ettari grazie a cui propone una cucina “a chilometro lanciato”, che punta su varietà vegetali autoctone. È il primo chef ad avere certificato una ricetta con la blockchain, la panzanella, applicata al pomodoro Torpedino.

Chef, perché questa idea della blockchain?

Dicono che sono sempre vent’anni avanti: sono un cuoco e imprenditore. A Labico ho un’azienda agricola con 60 ettari di orto. Chilometro zero, bio, mercato contadino: che significano? Alla fine ci sono sempre degli intermediari. Con la blockchain abbiamo qualcosa di serio. Io sono partito con il pomodoro Torpedino che nella panzanella non subisce cotture. Ho sentito bisogno di tracciabilità. Tra qualche anno potremmo avere difficoltà con il pomodoro: la Cina fino al 2000 non ne produceva neanche un chilo, nel 2017 è diventata il primo Paese produttore al mondo. C’è da preoccuparsi.

Come funziona il sistema?

Ci sono delle telecamere installate su 450 piantine bio di Torpedino, una sorta di mini San Marzano aromatico allevato nella piana di Terracina che ho trapiantato lo scorso maggio. Una torre di rilevazione, che funziona h24, verifica diversi parametri tra cui l’andamento del terreno, luce, umidità. Sullo smartphone ho il controllo in tempo reale del mio orto.

E il cliente come viene coinvolto?

La startup pOsti, che ha sviluppato la tecnologia, mi ha fornito un’applicazione grazie a cui il cliente può vedere quello che sta accadendo al mio orto. A chi mangia la panzanella rilasciamo un certificato di tracciabilità in cartaceo o digitale.

Per ora la blockchain è applicata a una sola ricetta come la panzanella (pane, pomodoro, olio e basilico): c’è l’idea di allargarla ad altre?

La vorrei applicare anche a una mia vigna sperimentale, ai carciofi e ai marroni: l’appetito vien mangiando. Voglio collaborare con università mettendo a disposizione il mio resort con i miei 60 ettari a chi intenda fare sperimentazione.

L’orto è diventato uno dei lussi contemporanei degli chef: cosa coltivi?

Nel mio orto, che è tutto bio, anzi biodinamico, ci sono diverse varietà di pomodoro: Roma, Datterino, Cuore di bue e il Torpedino che è la produzione più vasta. Poi le melanzane, zucchine, fagiolini. Dopo Natale metterò i piselli di Labico. Anche le dodici suite del resort hanno tutte l’orto-giardino. I clienti possono cogliere fichi, prugne, albicocche, mele, pere: molti di questi prodotti finiscono nelle stanze come cadeaux. Ho anche castagneti, orzo, girasole e dieci ettari di grano Senatore Cappelli.

Fai tutto tu o ti affidi ad un culinary gardener, professione sempre più presente nell’alta ristorazione?

Ho i miei contadini: gli stessi che mi hanno venduto i terreni. Mi definisco farmer chef: non è il contadino che diventa imprenditore, ma l’imprenditore che diventa contadino. Michel Bras negli anni 90, sui Pirenei, ha realizzato prima gli orti, e poi ha aperto il ristorante con albergo. Oggi ho 70 dipendenti. Avrei file chilometriche se decidessi di fare dei corsi di cucina. Voglio invece dedicarmi a corsi operativi in cui insegno a curare l’orto: quello che il cliente produce, se lo porta a casa.

La tua cucina affonda le mani nell’orto ed è prettamente romana: quali sono gli elementi vegetali che la caratterizzano?

La famiglia del cavolo per me non può mancare: broccolo romanesco, broccoletto, verza, cavolo cappuccio, broccoletto di Sezze, velletrano. Non mi piacciono il cavolo rapa e sedano rapa con cui molto colleghi fanno cremine. Amo poi le zucchine, melanzane, puntarelle che oggi nessuno conosce più. Faccio un’insalata di puntarelle con il caviale Beluga: un matrimonio tra povertà e lusso. Poi fagiolini, piselli, legumi, fagioli della Regina, Cannellini, Borlotti. In tutti i passaggi della cucina non manca mai una foglia di alloro fresco, poi rosmarino, maggiorana, la mentuccia.

Cucina a chilometro zero?

Alcuni miei piatti sono a “chilometro lanciato”: se si ordina una pasta al pomodoro, parte un cameriere che va nell’orto, che definisco campo-cucina, a prendere il pomodoro. Facciamo uno spaghetto affumicando il Cannellino e con maggiorana fresca: un ragazzo va con le forbici a raccoglierla e la taglia sulla padella. Voglio arrivare a una stagionalità estrema ed essere in questo un po’ un ambasciatore.

Quali varietà hai scoperto recentemente e intendi coltivare nel tuo orto?

Mi sono sempre avvalso dei prodotti del territorio. Amo per esempio la scorzonera, il topinambur. Ho scoperto una radice che se la fai bollire sembra di mangiare del tacchino. Ho diciotto varietà di prugne, alcune non si trovano più sul mercato: pagano l’aspetto estetico. Ho la Coscia di monaca, il Prunghetto che sembra una ciliegia e lo mettiamo nelle camere come benvenuto, poi la Giallona. Nelle mele ho la rossa di Maenza, molto acida: cotta al forno, vicina a un capocollo di maialino allo spiedo, fa impazzire.

Ci racconti un piatto simbolo della tua cucina che valorizza l’ortofrutta?

Uno di questi è il rollé di faraona farcito con mostarda dei nostri fichi. Prendo il petto disossato, lo spiano e dentro ci metto una serie di odori, timo, maggiorana, alloro, poi al centro una mostarda di fichi freschi. Poi faccio un chutney di Torpedino verde. Nella parte alta ci aggiungo una salsa di coratella d’abbacchio fatta come un foie grois. Intorno a questi tre piccoli cilindri, verso questa crema e metto delle cicoriette condite con un dressing di distillato di lampone e aceto di vino. Un piatto a chilometro zero e autoctono.

Perché l’ortofrutta è così protagonista nell’alta cucina?

C’è stata questa influenza delle erbe e delle spezie e nessuno si è tirato indietro. Michel Bras è stato grande fautore, con la Provenza, poi sono arrivati i nostri colleghi. Complice il boom del cibo vegetariano e vegano. E il fatto che ci stanno bombardando sull’idea che la carne faccia male. Oggi c’è quasi una richiesta tassativa: il cliente si mette a tavola e chiede qualcosa con le verdure. Io ho molti piatti anche per vegani. Lo spaghetto fumé con fagioli, asparagi e maggiorana, per esempio.

Con la blockchain dove vuoi andare?

Nasce sicuramente come provocazione. Ma può diventare altro. Il mio resort potrebbe diventare una beauty farm gourmet. Nello slogan scrivo: “Siamo fuori dal mondo, ma a due passi dal Colosseo”. Quando il cliente va via, sa qualcosa in più di un mondo agricolo di cui si sta perdendo storia e memoria. Ho 60 anni e ancora mi stupisco nel vedere persone che non sanno distinguere una pianta di ciliegie da quella di nocciole.

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