La competitività dell’ortofrutta tra aggregazione e gdo

Perde colpi il modello produttivo dell’ortofrutta italiana. E non son colpetti. Quella che emerge dal primo rapporto Nomisma–Unaproa sulla competitività del settore ortofrutticolo nazionale è una fotografia impietosa che mette nero su bianco ciò che gli attori che toccano con mano il mercato ogni giorno, sanno da tempo. Stiamo perdendo terreno. E lo stiamo perdendo pesantemente. Continuamente. Velocemente. Nonostante le nostre eccellenze, nonostante il prestigio del made in Italy, nonostante abbiamo il maggior numero di superfici orticole coltivate in Europa (18%) e siamo al secondo posto per quelle destinate alla frutta (17% dopo la Spagna con il 30%).

I dati. Negli ultimi 6 anni i consumi interni di ortofrutta sono calati del 15% ed il calo, a livello pro-capite (dal 2000 al 2014), è di circa 14 chili di frutta. Anche a livello globale il posizionamento competitivo del settore ortofrutticolo ne esce ridimensionato. Se nel biennio 2003-2004 la nostra quota sul mercato internazionale era del 5,4%, tra il 2013 e il 2014 è scesa al 3,8% attestandosi ad un terzo di quella della Spagna (10,3%).

«A complicare la situazione già difficile – ha spiegato Denis Pantini, direttore area agricoltura e Industria Alimentare di Nomisma –, è intervenuto l’embargo russo dallo scorso agosto. Oggi ci rubano quote di mercato gli Stati Uniti, ad esempio, ma anche la Cina che cresce molto soprattutto sulle conserve».

Il commento. La grande affluenza di operatori del settore registrata al convegno ha confermato l’elevato livello di attenzione che c’è su questo tema ormai ineludibile. «Oggi la sensibilità dei produttori – ha spiegato Felice Adinolfi, docente del dipartimento di scienze mediche veterinarie dell’Università di Bologna -. Ci si rende conto che questo è il momento di agire e non si può rimandare. Le deficienze vanno affrontate ma necessariamente hanno una prospettiva lunga. Bisogna ridisegnare un ruolo per le organizzazioni dei produttori. Degli strumenti già esistono e sono, ad esempio, i contratti di rete».

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L’aggregazione. In questo senso, su tutti i livelli (europeo, sovranazionale, nazionale, regionale, locale) c’è una sorta di “coro” riguardo alla necessità di riorganizzare il modello produttivo spingendo verso l’aggregazione dell’offerta. Ma nel nostro Paese, per dirla con le parole di Luca Bianchi, capo dipartimento politiche competitive del Mipaaf, «ancora una strategia politica non c’è».

Le molte proposte spesso si arenano di fronte alla radicatissima logica degli orticelli e dei campanilismi che da più parti si tenta di superare o dei ritardi. C’è chi spinge verso agevolazioni all’aggregazione aumentando, ad esempio, della soglia del valore della produzione commercializzata (Vpc) per le Op. Questo è il contenuto della politica della regione Lazio per il prossimo Psr, annunciata da Sonia Ricci, l’assessore all’Agricoltura.

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Unaproa. Ma si auspica anche un nuovo ruolo per le organizzazioni dei produttori che, ha spiegato Ambrogio De Ponti, presidente di Unaproa «non possono più limitarsi a fare la parte di intercetta di fondi pubblici. Non possono più essere dei mei passacarte ma vanno riorganizzate come vere e proprie aziende, lavorare sul mercato e fornire servizi ai propri associati».

E, in pratica, il modello produttivo nord-europeo che, nella competizione globale, dimostra di essere vincente perché facendo massa critica abbatte la guerra dei prezzi in fase di distribuzione, , ad esempio, o permette di programmare la produzione. Crea sistema, insomma.

I modelli. Ma il processo aggregativo, soprattutto nell’area centro-meridionale, ancora è tutto da sviluppare e non è detto che la strada sia in salita. Soltanto il mese scorso è arrivato l’accordo per l’area sud sul pomodoro dopo quasi due anni di trattative mentre l’Emilia-Romagna ha iniziato appena adesso un processo aggregativo sul comparto delle pere impostandolo sulla falsariga del modello delle mele del Trentino. Ma stiamo comunque parlando di un panorama nazionale dove tutt’oggi, la superficie media delle aziende agricole è di 2,7 ettari per le colture ortive e 1,8 per la frutta.

«Fa gioco dire – ha precisato Bianchi nel corso del convegno a Roma in cui sono stati presentati i dati della ricerca – che siamo tutti favorevoli all’aggregazione ma proiettando gli esiti della conferenza Stato-Regioni, dove abbiamo presentato dei decreti su agevolazioni per la concentrazione e sul riconoscimento delle Op, dobbiamo prendere atto che ci siamo incartati. Ci siamo fermati di fronte alle legittime difese di interessi consolidati».

La gdo. La riorganizzazione della filiera ortofrutticola, però, non passa solo dalla base. Uno degli attori più importanti, infatti, è la Gdo, la punta dell’iceberg che, come anche annunciato nel corso dell’ultima edizione del Marca di Bologna da Francesco Pugliese, presidente di Adm, l’associazione della distribuzione moderna, «può e deve avere un ruolo nella ristrutturazione del comparto. Attraverso la domanda, infatti, possiamo puntare a riorganizzare la produzione».

Le grandi catene italiane comprano ogni anno mediamente tra l’uno e i due miliardi di euro di frutta e verdura. In questo senso, assorbendo una buona parte della domanda interna del Paese è lapalissiano che possano influire sulla ristrutturazione della produzione.

Certo i numeri italiani sono piccola cosa rispetto alle grandi catene internazionali come la statunitense Walmart, ad esempio, che ha un fatturato annuo di circa 500 miliardi euro e 2,5 milioni di dipendenti o Carrefour che fattura 160 miliardi di euro l’anno.

Le prospettive. Ma anche in Italia la mappa della gdo italiana si sta ridisegnando velocemente: vuoi perché sono sempre di più i big-retalier internazionali che aprono nel nostro paese vuoi perché anche per la distribuzione moderna il nord-Europa, dove la gdo accorcia la filiera provvedendo, ad esempio, anche al confezionamento dei prodotti, vale come modello.

«Il mese scorso – ha spiegato Bianchi di fronte alla platea di produttori – abbiamo convocato la gdo italiana che fino ad ora non era considerato un attore della filiera. L’esito dell’accordo è stato una progettazione comune su piattaforme logistico-distributive per favorire l’export. Ma stiamo lavorando anche per aggregare l’offerta sul territorio di modo da creare il terreno per la realizzazione di accordi commerciali. L’ideale sarebbe che questo lavoro riuscissero a farlo le op. In questo modo il ruolo del governo potrebbe essere solo quello di facilitatore degli accordi commerciali tra privati».

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