Si fa presto a dire “made in Italy”

Il consumatore del mercato globale ha sviluppato un rapporto stretto con le produzioni locali che, tendenzialmente vengono preferite a quelle provenienti da lontano per un atto di fiducia nei confronti del proprio territorio.

Tendenza “glocal”. Questa è una delle principali tendenze di consumo (in crescita) con le quali il made in Italy deve misurarsi. È vero che italianità è sinonimo, nell’immaginario dei compratori di quasi tutto il globo, di qualità e salubrità dei prodotti ma è anche vero che una sempre maggior fiducia viene accordata alle produzioni territoriali.

Secondo quanto emerso nel corso 16° Rapporto Mercati Frutta & Verdura 2015 di Mark Up, la rivista New Business Media dedicata alle politiche di distribuzione, così accade, ad esempio, in Austria, Germania, Francia che sono fra le principali destinazioni dell’export in Ue del made in Italy. In questi Paesi domina la percezione generalizzata che il prodotto più salubre sia quello locale ma subito dopo, nella scala di preferenza, ci sono i prodotti del Belpaese che distaccano di parecchio gli altri competitor del mercato, primi fra tutti gli Spagnoli.

L’unico mercato, tra quelli esaminati, in cui frutta e verduta spagnole sono considerate equivalenti a quelle italiane, è il mercato britannico caratterizzato da una carenza di offerta interna (non si produce molto) e per questo da una certa dipendenza dalle importazioni. Le logiche glocal hanno preso piede anche nel mercato nordamericano.

Il mercato Usa. «Di recente – ha spiegato Marco Pedroni, presidente del consiglio di gestione di Coop Italia – i consumatori Usa stanno sviluppando una sensibilità tipicamente europea nei confronti delle produzioni locali e dell’economia locale. Si tratta di una cosa nuova che fino a cinque anni fa non aveva tutto il rilievo che oggi sta assumendo. Il loro concetto di locale naturalmente va adattato alle dimensioni della loro economia e le loro aziende sono più grandi delle nostre sicché hanno un modello agricolo diverso ma l’idea di fondo che spinge questa visione è quella di creare un valore per il consumatore e legarlo a quello che si fa nella propria terra. In questo senso, oggi, nell’approccio al mercato, l’elemento di italianità non basta più. Per creare valore bisogna sapere parlare, formare e informare il consumatore sulla storia di quel prodotto, della sua azienda e dei valori che questa incarna. In questo senso le tecnologie possono esserci di aiuto per un lavoro su marchi e cartellonistica in grado di comunicare in maniera più efficace queste cose».

In e out

Italian strategy. Italia, insomma, è, sì, sinonimo di qualità ma – sul mercato globale – l’italianità non è automaticamente associata ai prodotti ortofrutticoli o per lo meno, nella maggior parte dei casi, non con la stessa velocità con cui la si associa al parmigiano reggiano, all’aceto balsamico o ai formaggi.

L’Italian sounding, inoltre, secondo quanto emerso nel corso della giornata di studi di oggi nella sede del Sole 24 Ore, non dovrebbe essere visto come un problema ma come un’opportunità, una sorta di apripista per i consumatori, perché in grado di creare attenzione sul prodotto e sulla sua origine. Un’attenzione che si può tradurre in acquisto con l’attività promozionale nel punto vendita. In questo senso occorre un’adeguata formazione degli addetti ai lavori durante tutta la catena distributiva per capire come trattare ogni singola varietà e come valorizzarla.

Il reparto. «La comunicazione in reparto – ha spiegato Mario Gasbarrino, amministratore delegato Unes – per noi è un fattore determinante al punto che riceviamo la merce nelle cassette di plastica riutilizzabile e le esponiamo dentro delle ceste. Sembra folle ma dalla follia alle volte si ottengono i migliori risultati. L’ingresso nel reparto ortofrutta deve causare una specie di cazzotto nello stomaco al consumatore. In questo contesto, il discorso della qualità è certamente molto importante ma va abbinato anche ad un discorso di accessibilità dal momento che i supermercati danno da mangiare a famiglie che vivono con mille euro al mese. Il problema non è il prezzo ma che quel prezzo possa corrispondere alle esigenze della comunità».

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